TEREDINI 1° (Teredo navalis). La storia delle "Brume" divoratrici di legni in mare nei secoli passati (ilpareredellarchitetto.blogspot.com)

Le Teredini o “Bisse” delle navi 


La natura del problema

Le Teredini, uno degli organismi xilofagi (voraci mangiatori di legno) che vivono e proliferano nelle acque salmastre, rosicchiavano le palificate degli antichi porti che costituivano sostegno dei moli e delle bocche di porto. Stessa sorte toccava al fasciame delle imbarcazioni traforate in breve tempo dai molluschi. Le teredini eleggono come loro habitat naturale i legni infissi o galleggianti in acque salmastre portuali, li erodono dall’interno nutrendosi della fibra legnosa formando una cannula calcarea interna al legno dove alloggiano. In poco tempo sono in grado di distruggere le caratteristiche dei maggiori legni conosciuti. Le teredo navalis, chiamate da Fabio Colonna (1567 – 1640) «vermi marini» (Colonna fu tra i primi iscritti all’Accademia dei Lincei aperta da Federico Cesi nel 1612), non furono trasportati in Europa dai vascelli che attraversarono l’Oceano alla scoperta del nuovo mondo come scrisse Ruggero Boscovich (1711 – 1787). In molti hanno creduto ad una provenienza extraeuropea, in realtà nell’Europa c’erano già da molto tempo ed erano conosciute sin dall’antichità.

Nell’antica Roma
Nel primo secolo d.c. la Teredine compare nella Historiae Mundi di Plinio il Vecchio (libri XXXVII, Volume 1), quando tratta della specie dei tarli, da la prima definizione conosciuta di Teredine: «LXXX.41. Quattro sono le sorti degli animali, che guastano gli alberi: il tarlo ovvero teredine; ha grandissimo capo in proporzione del corpo, e rode coi denti. Questo solo si sente in mare, e si ritiene comunemente che questo sia proprio la Teredine». Erano note anche a Vitruvio infatti furono da lui mensionate nel suo libro V c.12. All’inizio del 1700 fu Apostolo Zeno nel Giornale dei Letterati d’Italia p. 170 a ricordare che «Plinio, Teofrasto, il Ruelio, ed altri celebri scrittori hanno fatto menzione di questo dannosissimo tarlo che chiamano Teredine».
Nel 1600 e nel 1700 Francesco Redi lo scienziato naturalista aretino, che con i suoi studi sovvertì la teoria Aristotelica dell’origine della vita sino allora creduta nell’ex putri, nella lettera al conte Magalotti riferiva una descrizione dettagliata e puntuale delle teredini fatta osservando il porto di Livorno. Antonio Vallisnieri (1661 - 1630) pubblicò nella Prima raccolta d'osservazioni, Venezia 1710 un capitolo interamente dedicato alle Brume (dette Bisce o Bisse in veneto), capitolo in forma di trattato.

Dante Alighieri
Inferno, canto XXI

Quale ne l'arzanà de' Viniziani
bolle l'inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,


ché navicar non ponno - in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;



Come nell'arsenale dei Veneziani bolle d'inverno la tenace pece che servirà a spalmare le barche non sane, che non possono navigare, perché troppo logorate - pertanto c'è chi rassetta la barca, chi tura con la stoppa il fasciame ai fianchi delle navi che hanno più viaggiato;

Dante narrò la tecnica veneziana di tirare a secco in inverno le inbarcazioni in cattivo stato "che navigar non ponno", nel ripararle con la sostituzione delle parti in legno "chi fa suo legno nuovo", nel sigillare con la stoppa e la "tenace" pece le inbarcazioni in cattivo stato "i legni lor non sani". Legni non sani perchè divorati dalle Bisse (Teredini).

Carlo Linneo
Biologo svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, scriveva delle teredini che furono propagate, diffuse e moltiplicate né mari europei col mezzo delle navi provenienti dalle Indie. Il ravennate Francesco Ginanni (1716 – 1766) nella Istoria civile e naturale delle pinete ravennati p.440, citando Linneo ne diede della teredine la seguente definizione: «Teredine del legno. Teredo intra lignum texta flexuosa, del Linneo. Abita né pali che sostengono le foci dé condotti dell’acque che mettono in mare». Albrecht von Haller (1708 – 1777) corrispondente di Giovanni Bianchi, alla p. 255 del suo Biblioteca Anatomica cita il trattato De teredine marina scritto da Godfredo Sellius. Lo stesso G. G. Winckelmann nel Volume 9, p. 107 delle sue Opere scriveva «So quanto fosse l’abilità di quest’uomo [Sellius] conosco il suo libro De teredine marina, scritto in leggiadrissimo latino».
Nell’epoca attuale
La massima autorità nel settore marineria riconosciuta ufficialmente, il Museo di Storia Naturale di Venezia così riporta sul suo sito: «Le larve così prodotte si fissano al legno e iniziano la perforazione producendo un piccolo foro. La perforazione, dopo una breve fase longitudinale, si sviluppa lungo sezioni trasversali. Dato che il foro d’entrata rimane delle stesse dimensioni, un legno colonizzato dalle teredini può apparire esternamente quasi integro, o con minime perforazioni, risultando al contrario internamente pesantemente degradato».


Durante gli studi la scoperta della Teredo Navalis
Svolgendo studi sul porto di Rimini e sulle cause del cattivo stato del porto romagnolo, pessime condizioni che per secoli ostacolarono lo sviluppo dei commerci, influendo negativamente sull’intera economia cittadina e del contado, è comparsa una causa poco nota ma forse la principale, la teredine. Nelle cronache storiche del 1600 e del 1700 sono continui e numerosi i riferimenti al permanere delle cattive condizioni del porto fluviale riminese, un argomento noto a tutti gli storici. Numerosi progetti che interessano il porto sono presenti negli archivi storici. Per molti secoli la comunità fu costretta a riparare «riattare» il porto con continue interminabili spese. L’intasamento della bocca di porto unita ai moli rovinati causarono difficoltà periodiche non indifferenti al traffico delle merci per la difficoltà d’entrata nel porto di cocche, caracche, galere, gripo, trabacoli, pieleghi, braceri, peote, batelli, tartane, polache quasi tutte le umbarcazioni che navigavano per l’adriatico. Tutti i testi di storia riportano solo due cause da imputare al dissesto del porto riminese: le piene alluvionali per i detriti del Marecchia e le mareggiate dai venti di Greco – Levante - Aquilone (Furiano per i marinai). Nei documenti storici è acclarato che le piene fluviali, le correnti marine e le forti mareggiate accumulavano ingenti quantità di sabbie marine lungo il litorale, ma non furono le uniche cause del malfunzionamento del porto riminese. Per avere un’idea della reale entità del fenomeno va considerato che l’attuale linea del bagnasciuga nel 1700 non esisteva, ovvero era arretrata e la linea della battigia arrivava all’altezza del Faro. I moli furono continuamente prolungati a causa di un fenomeno di progressivo avanzamento delle sabbie che formano la spiaggia. Lo storico Luigi Tonini nel 1800 annotò che tale fenomeno avveniva con una progressione di quasi un metro all'anno, anche se poi corresse questa sua affermazione prendendo a riferimento la torre-fanale: «Infatti se guardi al posto della Torre che anche oggi presta l'ufficio di fanale, eretta più di cento anni or sono (e non sarà stata posta in acqua) il mare non si è poi ritirato tanto da mettere in affanno che il prolungamento dei moli abbia ad allungare la linea in guisa da produrre in breve quegli effetti sinistri già messi innanzi». Lo storico Tonini notava il fenomeno della sedimentazione delle sabbie marine a prolungare la spiaggia ma non riteneva che fossero tali «da produrre in breve», guasti e danni ai moli da essere «effetti sinistri», così devastanti. Si interrogava Tonini sulla causa dei mali al porto che non riusciva a spiegarsi ma la causa sopiva nelle stampe di Ruggero Boscovich, Serafino Calindri, Giovanni Bianchi. Boscovich, Calindri, Bianchi furono alcuni dei personaggi che nella seconda metà del settecento, dal 1764 al 1768, si occuparono, con diversi ruoli, del porto riminese e ne fecero stampare le rispettive «memorie». Le teredini che oggi chiamiamo con il termine scientifico di Teredo navalis o teredini, era ed è uno degli organismi xilofagi che trova il suo ambiente naturale nei legni navali e portuali immersi nelle acque salmastre. La presenza di questi molluschi fu all’epoca la concausa principale del dissesto, causa quasi completamente trascurata. Per secoli i pali in legno infissi sul greto dei porti fluviali a fabbricare le sponde e i moli vennero rosicchiati della loro fibra legnosa e distrutti da organismi che vivono solo in acqua salmastra, chiamati all’ora in gergo marinaro «Brume delle navi» o «Bisse». Il termine Bisse è di origine veneta come riportato nel dizionario degli Accademici della Crusca.

Ruggero Boscovich (Memorie)
Scriveva Boscovich in Del Porto di Rimini Memorie […] (pag. 43 e 44), 1764 «…Le medesime palizzate dentro il canale devono aver patito col tempo anche infradiciandosi, massime fra le due acque alta e bassa, ove sono ora bagnate, ed ora asciutte; ma quelle, che stanno in mare, anno patito assai, e patiscono presentemente per li vermi, che le corrodono, i quali portati d’America cò vascelli, e propagati in Europa anno messo tanto in pericolo, e in allarme l’Olanda per le loro dighe, ed ora fanno tanta strage delle palizzate nell’Adriatico…». Le teredini non furono portate dalle americhe. Non è certo ma ipotizzabile che le caravelle di Cristoforo Colombo subirono la sorte delle teredini. Per il suo quarto viaggio per le Americhe noleggiò il Viczaina da Juhan de Orquiva per 42,000 maravedis al mese, in: «The voyage of the Vizcaína: the mystery of Christopher Columbus's last ship Di Klaus Brinkbäumer, Clemens Höges, Annette Streck. (Deutsche Velag-Anstalt, Munchen 2004)». Continua Boscovich «…Essi vermi non si avanzano nell’acqua dolce, ma nell’acqua marina riducono i legni più duri in tre o quattro anni a pura spunga [spugna], e li fanno comparire tanti pezzi di favi di cera cavati da un alveare…»

Calindri Serafino (Lettera)
Scriveva Calindri nella Lettera di un riminese[...], 1768 «Le predette Palizzate sono infinitamente soggette alla corrosione dei Vermi, che in quantità produce il nostro mare, tantoche in poco lasso di tempo rimangono a fior d’acqua quasi tutte corrose, e tronche le Palizzate sieno quanto essere si vogliono di legname grosso, forte, e consistente; per la qual cosa si rende gravissimo il loro mantenimento, massimamente del molo, che stà situato dalla parte di Levante, che oltre gli accennati pregiudizj, ai quali piu dell’altro è soggetto... »
Giovanni Bianchi - Iano Planco – (Parere)
Bianchi, citando Boscovich, scriveva, 1765 «…Veramente i pali nell’acqua salata in due o tre anni restano distrutti, e ridotti come spugne da què vermi chiamati dal Vallisnieri Brume, e qui volgarmente Biscie; ma a quella parte di palo, che sta nell’acqua salata, e che non è conficcata dentro terra… Le Brume di mare , che sono di una sostanza delicatissima, e tenerissima. Il P. Boscovich propone un liquore cavato dal carbon fossile [antenato della benzina?]; ma questo quì non si trova, ed anche finora è come un segreto, onde per ora basterà attenersi alla pece navale...». Bianchi conosceva il mollusco più distruttivo e veloce divoratore dei legni infissi in acqua salmastra. La terza causa delle cattive condizioni dei moli del porto di Rimini erano le teredini che divorano rapidamente le fibre del legno. Nella laguna di Venezia conoscono da secoli i problemi causati dalle teredini.


I Rimedi suggeriti da Ruggero Boscovich e Giovanni Bianchi
La pece come «cera» per ungere le navi è descritta da Plinio il Vecchio come un rimedio per impermeabilizzare il fasciame delle navi ampiamente usata dai romani. Ma era anche un buon rimedio, usato per molti secoli, per impedire alle teredini di annidarsi nei legni delle imbarcazioni immersi in acque marine. Nei fatti del porto riminese della seconda metà del settecento il problema emerge e vengono proposte più soluzioni per evitare la distruzione in due o tre anni dei pali infissi a formare i moli. Giovanni Bianchi nel Parere sopra il Porto di Rimino scrisse del suo doppio rimadio nel trattare i pali di legno «...si può fare il rimedio di sopra mentovato, cioè d’abbronzarla per un dito intorno intorno, e poscia impeciarla, come si fanno le barche; oppure che se le potrebbe dare una vernice, nella quale fosse cotto il verderame, o l’arsenico, che sono cose velenose, che uccidono tutte le maniere d’animali, che le addentano, non che le Brume di mare, che sono di una sostanza delicatissima, e tenerissima», preferendolo al rimedio di Ruggero Boscovich «Il P. Boscovich propone un liquore cavato dal carbon fossile; ma questo quì non si trova, ed anche finora è come un segreto, onde per ora basterà attenersi alla pece navale, che difende le barche, o alla vernice, che ho detta». Bianchi scriveva forse di un «liquore» prodotto dalla raffinazione del petrolio, antenato del gasolio e della benzina visto che «finora è come un segreto». È ragionevole supporre che il «liquore... segreto» descritto da Bianchi fosse il creosoto, un derivato dei minerali contenente fenoli cresoli. Si tratta di liquidi poco solubili in acqua e solubili in solventi organici con cui venivano trattati i legni per renderli resistenti ai parassiti e all’acqua. In tempi recenti un derivato simile era largamente usato per il trattamento delle traversine lignee ferroviarie.

Foderare le carene
Le brume si annidavano nel fasciame delle imbarcazioni distruggendolo in poco tempo, è facilmente immaginabile l’effetto nefasto della voracità delle brume. A risolvere un problema così grave perdurato per secoli e arginare l’effetto della corrosione dei legni sutto attacco delle brume si usò per secoli la spalmatura «consistente, dopo aver scoverta la curena, sia entro un bacino di riparazione, sia abbattendo in chiglia il vascello sia entro un bacino da riparazione». Si tirava a secco lo scafo, si inclinava prima da un lato, poi dall’altro rimuovendo volta volta le alghe e crostacei, infine stendendo un composto detto «spalmo» formato da sego, olio di pesce, solfo e «cerussa» (biacca) o bianco di piombo mescolate trà loro. Un rimedio per le imbarcazioni che durava poche settimane, da quì la necessità della continua sostituzione di tutto il fasciame esterno.
Magliettatura. Dopo il XVII secolo si usò l’espediente di ricoprire il più possibile la carena con chiodi di ferro dalla larga testa triangolare. Il maglietto era il martello di legno duro usato per infiggere i chiodi. Il rimedio si dimostrò scarsamente efficace, ma si aggiunsero due inconvenienti, la ruggine che corrodeva i chiodi e la facilità con cui venivano espulsi gli stessi in mare, forse a causa delle continue torsioni indotte a tutto il fasciame con le navi in movimento. Il risultato era che ad ogni campagna marittima si doveva sostituire i chiodi e ripiazzarli per oltre la metà della magliettatura.
Fogli di rame. Viene fatta risalire alla rivoluzione delle colonie americane contro la Gran Bretagna la comparsa della prima fregata inglese foderata con fogli di rame. Oltre a proteggere il fasciame esterno dagli attacchi delle teredini, da altri molluschi e dalle alghe, le lastre di rame offrivano una carena ben levigata e un minore attrito all’acqua che aumentava la velocità dei vascelli, come effetto ottennero una superiorità di veleggiare. Per ripulire le carene foderate in rame si usò un attrezzo denominato “frattazza di carena”. Gli inglesi cercarono di nascondere nel segreto il ritrovato ma venne svelato non appena la prima nave foderata fu conquistata dai francesi. Svelato il segreto tutte le marine militari d’Europa foderarono le navi «o sul cantiere o nei bacini, ovvero abbattendole in carena, e, quale che sia il metodo adottato, s’incomincia sempre la operazione della chiglia, progredendo man mano fino a qualche piede sopra il bagnasciuga». Trovò diffusione anche la tecnica «dapprima foderaronsi le navi con le sole foglie di rame, applicate alle bordature delle carene, per mezzo di chiodetti dell’istesso metallo a testa schiacciata, e sovrapponendo il lembo di una foglia, per due centimetri di accavallatura, sulla foglia contigua; ma da non molti anni si osservò che la fodera di rame, applicata a secco sul legname, andava soggetta a deteriorazione, nascente dagli effetti galvanici de’chiodi di ferro che attaccavano le bordature di carena alle ossature del vascello». Il costo elevato per foderare il fasciame esterno con fogli di rame indusse a sperimentare altre soluzioni. Humprey Davy provò con fogli di zinco e ferro combinato con il rame che evitava l’azione di ossidazione delle lastre di solo rame. Si provò con la nuova lega «l’Ammiraglio d’Inghilterra ordinava analoghi esperimenti in grande sulla corvetta a vapore la Cometa». Mentre per la resistenza della lega metallica fu un successo, il risultato dell’esperimento non fu esaltante perchè «la mancanza assoluta della patina di ossido aveva permesso ad una quantità di piccoli crostacei di di attaccarsi al rame, cagionando sulla fodera delle scabrosità che sensibilmente riducevano il cammino del piroscafo», nella sostanza si rallentava la velocità del piroscafo. Lo stato delle conoscenze al 1866 si fermano agli esperimenti Del Barone Carlo di Wotterstedt «per un suo novello ritrovato... consisteva cotesto ritrovato in una composizione di metallo misto, fatto di piombo e di antimonio fusi insieme in proporzione di 100 parti del primo e da 3 a 10 parti del secondo, del quale se ne fondevano delle piastre che poscia per mezzo del laminatojo si assottigliavano. Indi si spalmavano siffatte lamine di un’amalgama composta di 17 parti di mercurio, due di piombo, ed una di antimonio, che riscaldata ad una temperatura di 300° a 400° di Farheneit si riduceva, tostochè era raffreddata, alla condizione di una pasta con la quale se ne spalmava la superficie delle piastre che dopo disseccata si sottoponevano di nuovo al laminatojo».
Fodera di zinco. «Il costo troppo caro della fodera di rame indusse taluni costruttori di navi da traffico a fare lo esperimento delle foglie di zinco, applicate alla carena di taluni bastimenti da commercio; ma i risultamenti, essendone stati poco favorevoli, per la breve durata di questo metallo, troppo molle per poter resistere all’azione corrosiva dell’acqua di mare, ne fece abbandonare l’uso».
Le citazioni in virgolettato di questo capitolo sono citazioni del testo di Parrilli Giuseppe. Dizionario di Marineria Militare. Editato da Androsio Pasquale in Napoli nel 1866, un testo ricco di riferimenti alla pratica della Marineria Militare.

La Marina Militare Italiana
In uno dei primi numeri di questa prestigiosa Rivista Marittima, anno I, Firenze 1878, pag. 307 pubblicò un articolo con le specifiche dei trattamenti per carenatura con lastre metalliche, tecniche adottate in Inghilterra e Francia, di seguito riportato:
«Fodera di carena. – M. W. Day. di Wertroud (Inghilterra) fecesi dare recentemente in Francia un brevetto per un sistema di protezione delle lastre in ferro contro la corrosione, mercè mezzi meccanici e galvanici. Tale sistema consiste nel modo di applicare la fodera di carena, composta di zinco ed altro metallo appropriato alle lastre di corazzamento, ai cassoni, docks galleggianti, in giusa da combinare, quando sono immersi, l’azione elettro-positiva dello zinco coll’azione elettro-negativa del ferro, ciò che si oppone alla corrosione.
A questo scopo, si pratica in primo luogo nel ferro, al quale dev’essere applicata la fodera, un certo numero di buchi che si torniscono; indi si applicano le lastre di zinco munite di fori corrispondenti, e s’introducono in essi delle viti in ferro, zinco od altro metallo, invece di viti, si possono adoperare per lo stesso scopo dei perni ribaditi, nel qual caso i fori traverseranno i ferri da parte a parte. – Con questo mezzo, la fodera di zinco od altra materia elettro negativa aderisce saldamente al ferro a proteggersi, senza che sia d’uopo per ottenere l’azione galvanica, di ricorrere all’intervento di striscie in ferro od altro metallo che portino codesta fodera a contatto col ferro. – Il rame o qualsiasi metallo elettro- negativo distruggerebbe il ferro, se lo si applicasse nel modo anzidetto. Lo zinco si applica sulle lastre di ferro de’ cassoni, docks galleggianti od altre costruzioni in ferro, in modo da cuoprire parzialmente la superficie lasciandone alcune parti allo scoperto.» (Le Génie Industriel)

Loreto Giovannone Architetto

Commenti

  1. french translation is kind of hard at first but if you get used to it, then it is
    easy

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